venerdì 18 novembre 2011

Apocalipse Now.


Ci sono riusciti.

Da un paio di giorni l’Italia è di fatto un paese commissariato. Chiedete ad un argentino o ad un greco cosa significhi un pulmino pieno di commissari UE o (peggio ancora) del Fondo Monetario Internazionale.
La risposta non vi piacerà …

I giornalisti ci hanno spiegato, da tempo, che esiste una  sottile linea rossa che unisce il teorico del bunga bunga, al dilatarsi dello spread.

Qualcuno ancora si illude che il cambio di generale possa, di per se, modificare gli esiti della guerra.
Non è cosi’. Non sarà cosi’.
La soluzione della crisi di fiducia verso l’italia ed il suo debito pubblico è una questione di numeri.

Numeri sparsi. Per l’appunto


L’essenza del problema.

Sono mesi che, come cittadini, abbiamo preso confidenza con il termine spread: il differenziale tra il rendimento richiesto per collocare i nostri titoli del debito pubblico rispetto al tasso d’interesse pagato per le obbligazioni emesse dalla Germania.

Abbiamo anche capito, in molti ma non tutti, che tale differenziale viene richiesto dagli investitori in ragione della maggiore rischiosità del nostro debito rispetto a quello tedesco.

Ma di quale rischio stiamo parlando ?

Tecnicamente viene definito “rischio di default” e spiegato come il rischio che un paese non rimborsi il proprio debito.

Seguite ora il mio ragionamento.

Nella tabella che segue, pubblicata nell’ultimo Financial Stability Report del Fondo Monetario Internazionale, sono riassunti alcuni dei numeri chiave di finanza pubblica per un campione di stati sovrani.

Prendiamo come esempio la Corea. L’avanzo primario di questo stato è pari a 3.3% del PIL, il rapporto Debito Pubblico / PIL è del 32% e la porzione di debito pubblico in scadenza nel 2012 è pari all’1%.

Per semplificazione identifichiamo l’avanzo/disavanzo primario con il deficit/surplus di bilancio (dedotta quindi la spesa per interessi dul debito, che trascuriamo).

La Corea genera “cassa” pari al 3,3% del PIL e nel 2012 deve rinnovare debito per un ammontare pari all’1% . Se vuole, puo’ non collocare debito.

La Corea e la Norvegia, sono gli unici stati del campione riportato in tabella, che sono nella condizione privilegiata di poter scegliere se andare o meno sul mercato per rifinanziare il proprio debito.

Ed e’ questo il punto: il debito emesso, per tutti gli altri paesi, viene rimborsato attraverso l’emissione di nuovo debito. Se il nuovo debito non viene sottoscritto, il vecchio debito non viene rimborsato.

Faccio notare che anche gli sghignazzanti francesi e tedeschi sono nella condizione di cui sopra, e pero’, almeno i tedeschi, sembrano non preoccuparsene.

La prossima domanda è quindi: se tutti i paesi sono piu’ o meno a rischio di default, perché alcuni riescono a collocare il loro debito a tassi “bassi” ed altri lo fanno pagando un premio di rischio ?

La risposta non è la banale “perché alcuni sono piu’ a rischio di altri”, ma molto piu’ articolata.

Il bravo economista direbbe che cio’ che conta è la traiettoria del debito, in altre parole, la sua sostenibilità. La sostenibilità del debito pubblico non puo’, a mia conoscenza, essere confinata in un set di parametri e quindi non è un dato oggettivo ma soggettivo.

Il pericolo che corre l’Italia, ma non solo l’Italia, è proprio nella non oggettività della definizione di debito pubblico sostenibile.

La storia ci dice che un buon indicatore della sostenibilità del debito pubblico, è un rapporto debito pubblico PIL che diminuisce. Siamo stati su questa traiettoria, nonostante il debito pubblico sia aumentato in valore assoluto, a partire dalla metà degli anni 90 fino al 2007 / 2008.


Ed infatti non abbiamo avuto grandi problemi di tassi ne di sottoscrizione nel collocare il nostro debito pubblico in questo periodo. Il grafico di seguito riassume la nostra storia economica recente, in relazione allo spread del BTP decennale rispetto al Bund di pari scadenza.


A partire dal 2008/2009 , in appena un triennio, siamo tornati indietro di circa quindici anni e la figura di seguito spiega il quanto ed il come, e pero’ va letta in concomitanza con la traiettoria del Pil della figura precedente, che mostra una flessione dello stesso, anche a livello nominale.
Lasciatemi brevemente riassumere quanto ho illustrato precedentemente:

  1. Se non siete la Norvegia o la Corea, siete potenzialmente a rischio default.
  1. La sostenibilità del debito pubblico è figlia di un giudizio soggettivo (degli investitori) e non di parametri oggettivi
  1. L’Italia, in termini di rapporto Debito/Pil e di spread sul decennale è tornata indietro di circa quindici anni, come se l’euro non fosse mai esistito.
E pero’ l’euro esiste ed è per noi una valuta straniera, gestita da una banca centrale straniera.


Noi e Loro.

Esistono almeno tre economie che, pur avendo parametri di finanza pubblica al nostro stesso livello o addirittura peggiori dei nostri, non vivono lo stress da tassi di interesse: gli Stati Uniti, il Giappone e l’Inghilterra.

Cosa li accomuna ?

1)     Tutti e tre questi paesi hanno una loro valuta ed una loro banca centrale.

La Fed e le altre banche centrali si propongono come prestatori di ultima istanza. La capacità di monetizzare il debito, di “stampare moneta” laddove necessario, per sottoscrivere il debito pubblico, esercita nei confronti degli investitori una moral suasion che annulla l’eventualità di default come precedentemente definita.

Il rischio di politiche monetarie cosiddette di easing quantitativo è che si generino condiziioni favorevoli ad un aumento dell’inflazione, e che tali aspettative si risolvano in un indebolimento dei cambi della valuta nazionale. E questo è infatti successo.

2)     La percentuale di debito pubblico in mani straniere è bassa o molto bassa.

Il caso del Giappone è paradigmatico. Il debito pubblico è sostanzialmente tutto domestico, come se per un patto sociale non scritto, i giapponesi si siano accordati per rinnovare sine die il proprio debito, piuttosto che varare misure lacrime e sangue per sistemare gli indicatori di finanza pubblica.

La ricetta banale per evitare il rischio default e un aumento fuori controllo dei tassi di interesse sul nostro debito pubblico è quella di uscire dall’euro. Questa ipotesi è talmente stupida e pericolosa che non spendero’ un secondo per commentarla.

La strada che invece mi sembra appropriata, laddove la BCE non voglia usare il Silver Bullet (la monetizzazione del debito), è dolorosa, ma applicabile, e già delineata nel mio “Il Pranzo di Ferragosto”:

a)      Una patrimoniale straordinaria

b)      Un programma di dismissione del patrimonio pubblico

Tanto per non essere equivocato, a seguire andrebbero fatte tutte quelle riforme di cui si legge, si chiacchiera, si disserta.

Ma concentriamoci sul breve.

L’obiettivo di a) e b) è quello di generare liquidità per mettere in condizione il Tesoro di andare sul mercato non per necessità ma per volontà. Se agli investitori (non usero’ il termine mercati nemmeno sotto tortura…), ci si presenta in emissione senza una urgente necessità di cassa, si negoziano tassi alla tedesca.

Il punto piu’ controverso della ricetta di Ferragosto, è sicuramente quello della patrimoniale.

Una variante potrebbe essere uno scambio tra l’imposta straordinaria stessa e un prestito forzoso: banalmente, in luogo di una imposta pari al 2,5% del patrimonio, come ipotizzavo, la sottoscrizione di pari importo di debito pubblico opportunamente scadenzato.

In questo caso si assicurerebbe la restituzione della “tassa”  e che una maggiore porzione di debito risulti domestica.

Il programma di dismissione del patrimonio pubblica, merita anch’esso attenzione.

In settembre del corrente anno, il Tesoro ha illustrato il censimento dei beni pubblici ed una serie di ipotesi per la sua valorizzazione e/o dismissione[1].

La differenza tra valorizzazione e dismissione risiede nell’impatto, differito o immediato, che tali scelte hanno sull’andamento degli indicatori di finanza pubblica.

Una cosa comunque è certa, che il patrimonio dello stato deve essere portato a livelli di reddività di mercato, come illustrato dalla tabella seguente:
 
 
 
Il programma di dismissioni del patrimonio pubblico ha avuto un effetto non marginale sull’operazione di risanamento dei conti iniziato nella seconda metà degli anni novanta.

La simulazione fatta dal Ministero del Tesoro in proposito è rappresentata nel grafico che segue.





Un programma di dismissioni del patrimonio dello Stato sembra quindi una strategia ineludibile nella contingenza attuale.

Per concludere, una fotografia del conto patrimoniale dello Stato.



Qualche considerazione a margine.

John Maynard Keynes ha scritto:

Long run is a misleading guide to current affairs. In the long run we are all dead”.

Ho ascoltato il discorso del nuovo Presidente del Consiglio al Senato. Per quello che vale, mi è piaciuto. Se fosse stato un discorso programmatico l’avrei votato. Il programma, seppur solo delineato, è equilibrato e di grande respiro. E questo è il suo limite

E’ un programma che, calato nei numeri, ne sono certo, disegna una traiettoria di sostenibilità per il debito pubblico. Ma il problema per l’Italia è nel presente.

E’ il rinnovo di circa quattrocento miliardi di debito pubblico previsto per il 2012. E’ il rischio che i tassi di interesse che ci vengono richiesti, rendano inefficaci le misure di aggiustamento che il governo varerà nel prossimo futuro, innescando una spirale fuori controllo.

E’ il rischio che le aste vadano in parte deserte, ed allora sarebbe davvero …. Apocalipse Now.
 
 
 

[1] Patrimonio Pubblico - Edoardo Reviglio - Seminario MEF - 29 settembre 2011

lunedì 26 settembre 2011

Il Pranzo di Ferragosto

Il pranzo di ferragosto mi è rimasto sullo stomaco. Complice la turbolenza dei mercati finanziari ed il frastuono di una classe politica che ci ha accompagnato con il consueto minuetto di proposte e controproposte, veti e contro veti, insulti e dito-medio-alzato, dichiarazioni al vento con crociati sullo sfondo eppure …

Eppure per un momento mi ero illuso che il commissariamento sulla politica di bilancio italiana, ad opera della BCE, potesse diventare un’occasione per questo paese, per mettere le mani, anzi le braccia, nel ventre molle delle disfunzioni, dei privilegi, delle distorsioni, che, da decenni, affliggono l’Italia.

E’ stato solo un momento: la conferenza stampa del presidente del Consiglio con l’intervento di Tremonti che spiegava la manovra nelle sue grandi linee.

Ho pensato, ingenuamente, che finalmente la nostra classe politica, avesse preso coscienza della gravità della situazione e, con un sussulto di capacità di governo, senza calcoli elettorali,  avesse deciso di dare una sterzata significativa all’andamento dei conti pubblici.

L’ho detto in premessa: la mia è stata una considerazione dettata piu’ dalla speranza che dal realismo, ed infatti, il post ferragosto è stato un rigurgito di pressapochismo economico e giuridico, con un migliaio di parlamentari che ragliavano modifiche alla manovra, si lamentavano della mancanza di provvedimenti per la crescita (…), di attacco al federalismo o allo statuto dei lavoratori.

Alla fine la tanta sospirata manovra è arrivata, e, sebbene frutto di mille compromessi, dovrebbe portarci al pareggio di bilancio nel 2013.

Prendiamo per buona questa proiezione e costruiamoci su un ragionamento.

Il potere dell’inflazione

Non entriamo nel merito della manovra. Come dicevo, rimaniamo ancorati alla promessa del pareggio di bilancio nel 2013, e della sua costituzionalizzazione.

Per mantenere il pareggio di bilancio a partire dal 2013, l’Italia dovra’ avere un avanzo primario pari alla spesa per interessi.

Un prima ovvia considerazione è che, un eventuale aumento della spesa per interessi dovrà necessariamente essere compensato da un aumento dell’avanzo primario, ovvero meno spese e/o piu’ entrate. Ma al di là di questa ovvietà, vediamo qual’e’ l’impatto sul rapporto debito pubblico PIL di questo comportamento virtuoso.

Ricordiamo la nota formula per la variazione del rapporto Debito Pubblico PIL :


Se imponiamo la condizione di pareggio di bilancio, otteniamo la seguente :
Nell’ipotesi di pareggio di bilancio, il rapporto debito pubblico PIL, diminuisce del prodotto tra il tasso di crescita nominale del PIL e il rapporto tra debito pubblico e PIL.

Una crescita reale del 1% con un tasso di inflazione del 2%, comporta che, seppur virtuosa, la condizione di pareggio di bilancio raggiunta dall’Italia nel 2013, riduce di circa 3,6 punti percentuali all’anno il rapporto debito pubblico PIL.

Troppo poco, partendo da un valore del 120% per questa grandezza. La soluzione è quindi altrove.

Consideriamo l’Italia , nei suoi numeri, al pari di un’azienda.

Il pareggio di bilancio implica che l’azienda Italia “gira” con un MOL pari alla spesa per interessi. Il fatto è di per se positivo, ma  come ricordato, l’elevato indebitamento rende il conto economico soggetto all’alea dei tassi di interessi. Se un eventuale aumento dei tassi di interesse fosse l’effetto indotto da un aumento dell’inflazione, la situazione sarebbe, mi permetto di dire, positiva. Se lo stesso, come accade in questi giorni, fosse dovuto ad un premio di rischio richiesto per la sottoscrizione dei titoli pubblici del debito italiano, si potrebbe arrivare ad una impossibilità nel sostenerne il peso con il vincolo del pareggio di bilancio

Appare evidente che l’unica via di uscita sia una drastica riduzione del debito pubblico.

Portando avanti l’analogia con i conti di un’azienda, dobbiamo mettere a posto il bilancio, dopo aver agito sul conto economico.

L’azienda Italia, se messa sotto tutela dai suoi creditori, come accade nel mondo privato , dovrebbe percorrere, contemporaneamente due strade :

a.   la dismissione di alcuni asset al fine di ridurre il debito

b.   l’intervento dei suoi azionisti, con una ricapitalizzazione, anche questa al fine di poter ridurre il debito.

Per quanto attiene al punto b., ricordiamo che gli azionisti dl sistema Italia sono i cittadini italiani, e che il processo di ricapitalizzazione non potrà essere che su base forzosa: una patrimoniale.

Il numero magico

Quale potrebbe essere il valore di arrivo del rapporto debito pubblico PIL, per consentire all’azienda Italia di evitare l’avvitamento del debito stesso ?

Io dico il 90%.

In soldoni significherebbe riportare il debito pubblico agli attuali 1'900 miliardi di euro, a circa 1'500. Parliamo quindi di un totale di 400 miliardi di euro da trovare.

L’azienda Italia ha asset disponili alla vendita di questo ordine di grandezza ? I suoi azionisti sono capienti ? E in che misura ?

Il patrimonio pubblico è al momento oggetto di un censimento. Circolano pero’ alcune stime:

a)   Le azioni di società, quotate e non, che fanno capo al Ministero del Tesoro sono valutate circa 140 miliardi di euro.

b)   Le aziende di servizi pubblici locali (municipalizzate ecc.) possedute dagli enti territoriali; sono circa 700, di cui 14 quotate in borsa; il valore di mercato di queste ultime si aggira su i 7 miliardi di euro.

c)   Il patrimonio immobiliare. Una stima cautelativa, elaborata  in uno studio congiunto della Fondazione Magna Carta e dell’Istituto Bruno Leoni, valutava il patrimonio immobiliare in circa 350 miliardi di euro a valore di mercato; esso è  per la maggior parte posseduti dagli enti locali.

In attesa delle nuove stime elaborate dal Ministero del Tesoro, appare chiaro che la metà dei 400 miliardi per centrare il numero magico, possono essere trovati dalle dismissioni del patrimonio pubblico.

Gli altri 200 miliardi, sono di competenza degli azionisti. Di noi tutti.

Secondo le stime di Banca d’Italia (dati 2009), la ricchezza delle famiglie italiane, è pari a circa 8'000 miliardi.

Nel dettaglio :


Come dicevo la ricchezza netta (al netto dei debiti delle famiglie) è dell’ordine degli 8 mila miliardi di euro. Va sottolineato che i dati sono a valori di mercato sia per la parte immobiliare che per quella finanziaria.

Nella seconda colonna, ipotizzo i valori che potrebbero essere oggetto di una patrimoniale (escludo per esempio le banconote circolanti che difficilmente si riuscirebbero a tassare …).

In termini di macronumeri, i 200 miliardi necessari al completamento della manovra, potrebbero essere trovati con una patrimoniale una tantum, pari al 2,5% della ricchezza netta della famiglie. Ricchezza valutata a valori di mercato. Lo ribadisco.

La base imponibile, e la successiva tassazione, andrebbe quindi organizzata, facendo emergere il valore di mercato delle partecipazioni e dei beni immobiliari.

Non è facile ma è possibile.

Per la ricchezza immobiliare, il 2,5% andrebbe applicato sul valore di mercato del bene, al netto del debito su di esso gravante (il mutuo per esempio).

Una famiglia che ha una abitazione con valore di mercato ipotizziamo di 400'000 euro ed un mutuo di 150'000, avrebbe una base imponibile di 250'000 euro su cui applicare la tassa patrimoniale del 2,5%. Tale tassa sarebbe pari a 6'250 euro.

Se, come ci indicano i dati di Banca d’Italia, la distribuzione della ricchezza delle famiglie, è asimmetrica rispetto alla distribuzione dei redditi, la patrimoniale potrebbe servire a diminuire le distorsioni che da decenni affliggono l’imposizione e il gettito fiscale nel nostro paese.

In sostanza, al 10% delle famiglie che detengono circa il 50% della ricchezza totale, andrebbe richiesto un contributo dell’ordine dei 100 miliardi di euro.

Sia la patrimoniale che la dismissione del patrimonio dello stato, andrebbero realizzati in un triennio, facendo attenzione a che i proventi non vengano assorbiti, nemmeno parzialmente, dalla spesa corrente, ma vadano integralmente alla riduzione del debito pubblico.


Qualche considerazione (superflua).

Quando il ministro Tremonti chiedeva che nel computo dell’indebitamento degli stati fosse incluso anche l’indebitamento delle famiglie, e la loro ricchezza, non aveva torto. Ometteva, di tutta evidenza, che un simile ragionamento comportava che dalla ricchezza delle famiglie si potesse attingere al momento dovuto, al fine di riequilibrare i conti pubblici.

Probabilmente quel momento è arrivato.

Consegnare 200 miliardi del nostro patrimonio alla Stato presuppone un patto di ferro con chi sarà chiamato a raccogliere una tale somma ed a gestirla.

Un patto che comporti una classe dirigente sobria oltre che onesta. E soprattutto preparata a guidare un paese ed ad ottimizzare l’utilizzo delle sue risorse finanziarie ed umane.

Un classe dirigente nuova. Per un paese nuovo. Scelta liberamente.

Inutile dirvi, che il vostro capocomico non è candidabile.


Fonte Dati in tabella :                            Bankitalia Supplementi al Bollettino Statistico Indicatori monetari e finanziari : La ricchezza delle famiglie italiane 2009 – 20.12.2010


martedì 20 settembre 2011

Oro alla Patria

A seguito dell'invasione italiana dell'Etiopia, nel 1935, la Società delle Nazioni approvo', come ritorsione, un pacchetto di sanzioni nei confronti dell'Italia.

L'Italia fascista, al fine di consentire alla nazione di superare le suddette sanzioni, varo' un programma denominato Oro alla Patria, che consistette nel dono volontario, da parte di tutte le famiglie italiane, di alcuni oggetti in oro

Il 18 dicembre 1935, nel quadro di detta campagna, fu celebrata la Giornata della fede: la giornata riscosse un grande successo. Gli italiani offrirono alla Nazione le proprie fedi nuziali raccogliendone milioni ed un quantitativo totale di 37 tonnellate d'oro e 115 d'argento.

Il gioco del momento, si sà, è il prova-a-fare-la tua-manovra, gioco solo recentemente superato nell'indice di gradimento popolare, dal come-ti-risano-i-conti-dello-stato.

I giocatori sono numerosi, alcuni vivaddio anche qualificati. Ma al contrario di quanto accade in occasione dei mondiali, in cui le chiacchiere sulla migliore formazione della nazionale restano confinate nei vari bar dello sport, nel caso della fantamanovra l'idea del giorno viene resa pubblica (e nella forma scritta !).

Tra le idee piu' sgangherate, c'è senz'altro quella di utilizzare le riserve auree della Banca d'Italia, per ripianare, seppur parzialmente, il debito pubblico.

A queste menti astute sfugge che la Banca d'Italia, sebbene un po' particolare, è comunque una banca. Con i suoi attivi (tra cui l'oro), il suo capitale e , non dimentichiamocelo, le sue passività.

Ma, cosa ancora piu' importante, la Banca d'Italia è di proprietà, con  percentuali diverse, delle banche italiane e non del Tesoro. E le banche italiane, anche se non sappiamo per quanto tempo ancora, sono soggetti privati con azionisti privati.

La pottrei chiudere qui, senza aggiungere nient'altro. Il passaggio di un attivo da un soggetto (Banca d'Italia) ad un soggetto terzo (il Tesoro), appare giuridicamente impraticabile: l'esproprio non è stato anche costituzionalizzato.

E pero', non avrete fatto a meno di intuire, che quell'oro, se non per la patria, potrebbe essere utilizzato per ricapitalizzare gli azionisti di Banca d'Italia: le banche italiane. Che ne hanno davvero bisogno.

Vediamo se è possibile.

La Banca d'Italia ha un totale di bilancio di circa 342 miliardi di euro, un passivo di 250 miliardi e mezzi propri per 92. I mezzi propri sono suddivisi tra Capitale e Riserve (20 miliardi) e Conto di Rivalutazione (72 miliardi), in cui vengono iscritte le minus/plus valenze latenti (non realizzate), rispetto alle poste di bilancio,  e quindi non fatte passare attraverso il conto economico.

Al 31.12.2010, il conto Oro e Crediti in oro, all'attivo del bilancio, segna un valore di circa 84 miliardi di euro. La consistenza fisica del metallo prezioso è di 2'400 tonnellate, che ai prezzi attuali (42'000 €/Kg), rappresenta ad oggi un valore di  circa 100 miliardi di euro, con una maggior plusvalenza (latente), rispetto ai valori di fine 2010, di ulteriori 20 miliardi.

Il conto rivalutazione sarebbe quindi al momento di circa 92 miliardi ed il capitale e riserve di circa 20.

Considerando che Intesa ed Unicredit capitalizzano in borsa qualcosa come 30 miliardi, e che la loro partecipazione al capitale di Banca d'Italia è pari a circa il 50% del capitale della stessa,  c'e' di che ragionare.

Per esempio una distribuzione straordinaria dell'oro di Banca d'Italia agli azionisti, dissolvendo il conto di Rivalutazione, Un inflow di asset pregiati per le due grandi banche (ed evidentemente anche per le altre).

L'operazione non sarebbe banale, e necessiterebbe di una qualche alchimia contabile.

Il beneficio per il sistema bancario sarebbe pero' attenuato dal fatto che non tutte le banche hanno a bilancio la loro partecipazione in Banca d'Italia a valori storici, e quindi la "plusvalenza" ed il conseguente beneficio in termini di maggiori mezzi propri ne risulterebbe in alcuni casi attenuato, ma resterebbe, di fatto, piu' che consistente. 

Comunque, con 1200 tonnellate d'oro, di questi tempi, Unicredit e Banca Intesa ci farebbero un figurone ...

A questo punto resta da valutare la situazione patrimoniale post fanta distribuzione, di Banca d'Italia.

A fronte di un totale di bilancio di 270 miliardi circa (perdonatemi qualche approssimazione ed incoerenza a questo stadio) si troverebbe con 250 miliardi di passivo e 20 miliardi di mezzi propri.

Una leva di 12 a 1.

Anche in previsione di una eventuale (...) uscita dall'euro: è questa la Banca d'Italia che vorremmo ?


venerdì 19 agosto 2011

Ri-Scudo

Ci risiamo: si riparla di scudo fiscale.

Da un lato si ipotizza una nuova imposta sui capitali già scudati, dall'altro si discute sull'opportunità di un nuovo scudo fiscale.

Iniziamo con il dire che queste due ipotesi sono in contraddizione tra loro. Se infatti lo Stato approvasse un prelievo aggiuntivo sui capitali scudati (e non si capisce se solo su quelli relativi all'ultimo scudo o anche a quelli relativi agli scudi precedenti), violerebbe il patto con i contribenti siglato con il relativo decreto in cui esplicitamente si assicurava che detti capitali non sarebbero stati soggetti ad ulteriore tassazione "straordinaria". Con quale credibilità questo stesso Stato si porrebbe quindi di fronte al contribuente infedele, nel sollecitarlo ad aderire ad una nuova proposta di scudo ?
Rinunciare ad un nuovo contributo sui capitali scudati, potrebbe al contrario aprire la porta ad una adesione nei confronti di un nuovo scudo fiscale, se non altro dimostrando che, anche in circostanze straordinarie, lo Stato mantiene con i contribuenti gli impegni sottoscritti.

La mia modesta opinione è che questo scudo, comunque ed al contrario degli altri, sarebbe sotto il profilo numerico, sia delle adesioni che del gettito, un fiasco annunciato.

Le ragioni sono molteplici. Innanzitutto la sfiducia nel sistema paese Italia da parte dei suoi stessi residenti, è aumentata rispetto al passato e, le mutate condizioni internazionali, rendono a mio avviso inevitabile una qualche forma di imposta patrimoniale, stabile o una tantum in un prossimo futuro.

Le norme in materia di mancata dichiarazione dei capitali detenuti all'estero, varate dal parlamento in concomitanza con l'ultimo scudo, sono un naturale deterrente all'esportazione furtiva dei capitali all'estero, ma la difficoltà di applicazione delle stesse e le relative sanzioni, ne annullano sotto il profilo probabilistico l'efficacia.

Lascitemi pero' inquadrare il problema dei capitali illecitamente esportati all'estero, nel suo contesto naturale, quello dll'evasione fiscale in Italia.

I numeri, o meglio la loro stima, circolano sulla stampa e sono oramai parte dell'immaginario collettivo. La caccia all'evasore che ha occultato i proventi (e quindi i mancati pagamenti al fisco) della propria attività in un qualche paradiso fiscale, rappresentano l'immagine meglio veicolata dai media del fenomeno evasione fiscale in Italia.

I numeri ci aiutano pero' a fare chiarezza.

L'imponibile sottratto al fisco annualmente in Italia è dell'ordine di 15/17 punti di PIL, in soldoni qualcosa come 250 miliardi di euro all'anno. Il mancato gettito viene calcolato in circa 120 miliardi di euro all'anno (la metà per la cronaca è IVA non pagata). Questi valori sono valori annui.

Da una recente analisi per Banca d'Italia di Valeria Pellegrini ed Enrico Tosti) dal titolo “Alla ricerca dei capitali perduti: una stima delle attività all’estero non dichiarate dagli italiani" estrapoliamo un valore di circa 150 miliardi di euro (la stima è ina forchetta tra 124 e 194 miliardi), per la ricchezza non dichiarata detenuta all'estero dai contribuenti italiani infedeli, post scudi fiscali dell'ultimo decennio. Di questi circa 100 miliardi sarebbero depositati in Svizzera.
Appare chiaro che, le suddette disponibilità rappresentano poco più  della metà dell'imponibile sottratto al fisco nel corso di un singolo anno fiscale. E quindi il fenomeno dell'evasione con capitali occultati all'estero è un fenomeno importante in valore assoluto, ma modesto in termini relativi.

Per i tempi che stiamo vivendo, il valore assoluto resta pero' un dato fondamentale e quindi riuscire ad incassare una parte piu' o meno importante delle imposte evase correlate a questi ipotetici 150 miliardi di euro, è un obiettivo da perseguire.

Ribadisco che un nuovo scudo fiscale, per le motivazioni già presentate, sarebbe un insuccesso clamoroso. Ma non tutto è perduto, anzi.

Il mondo nuovo che si va consigurando post 2008 (e post attacco del IRS all'UBS) ci consegna un alleato prezioso: la Confederazione Elvetica.

Sono di questi girni le indiscrezioni sugli accordi firmati tra la Gran Bretagna e la Svizzera e tra la Germania e la Svizzera, in materia di cooperazione fiscale. Da quanto è trapelato, le banche svizzere offriranno tre possibilità ai propri clienti tedeschi o inglesi, per sanare nei confronti delle rispettive amministrazioni fiscali, la propria posizione pregressa:

1) Autodichiararsi alle autorità fiscali del proprio paese

2) Pagare una sanzione variabile tra il 19 ed il 34 percento del patrimonio depositato, mantenere l'anonimato, e sanare la propria posizione pregressa.

3) Trasferire all'estero (presumibilmente in altri "paradisi fiscali"), i propri averi, ma non in filiali estere di banche svizzere.

In seguito, ai proventi dei beni depositati all'estero, verranno applicate imposte secondo le aliquote vigenti nei paesi di provenienza (Inghilterra e Germania).

In nuovo dato è che il sistema bancario svizzero farà da esattore per le autorità fiscali dei due stati citati.

So cosa state pensando: il mondo è cambiato davvero !

In realtà un tentativo per tassare i proventi dei capitali detenuti in Svizzera da parte di residenti europei, era stato fatto già qualche anno fa, con la introduzione della cosiddetta euroritenuta. I risultati di gettito per le varie tesorerie europee sono stati piu' che deludenti: la normativa infatti lasciava campo libero ad una serie di artifici giuridici che sono stati prontamente utilizzati dai gestori elvetici per minimizzare la ritenuta.

Questa volta, ne sono certo, sarà diverso. Confido sulla accortezza dei negoziatori inglesi e tedeschi: lo spazio per scappatoie legali sarà estremamente ridotto.

Per quale motivo la Confederazione Elvetica ha accettato una tale soluzione? Da un lato l'esperienza che citavo con le autorità fiscali statunitensi è stato il punto di svolta (un'esperienza da non ripetere ...), dall'altro il sistema bancario elvetico, ritiene l'Europa meno strategica del passato per la crescita delle attività "offshore".  

Non da ultimo, la crisi del 2008 ha fatto si che la lotta ai paradisi fiscali fosse una un comune denominatore di tutte le economie occidentali. Per uscire dalla cosiddetta "grey list", la Svizzera ha bisogno di concludere almeno 12 trattati fiscali con altrettanti paesi OCSE e, tra questi, non potevano non esserci la Germania e l'Inghilterra.

E l'Italia ?

Il ministro Tremonti ha assunto nel passato piu' o meno recente, un atteggiamento a dir poco intransigente nei confronti della Confederezione Elvetica (pare abbia detto: " nessun Paese serio fa trattati con i paradisi fiscali"). Sulla serietà di Germania ed Inghilterra esiste un ampio consenso e, anche le condizioni negoziate, appaiono interessanti.

Se il dato dei circa 100 miliardi di euro di patrimoni non dichiarati depositati in Svizzera è corretto per ordine di grandezza, la firma di un trattato fotocopia da parte dell'Italia, potrebbe contribuire significativamente a corroborare la manovra recentemente delineata.

Le opzioni lasciate ai clienti delle banche elvetiche, mi lasciano ipotizzare un livello di adesione al pagamento della sanzione molto elevato. Le piazze offshore su cui eventualmente si potrebbero dirottare i capitali non dichiarati, non godono certo dell'affidabilità riconosciuta alla piazza finanziaria elvetica da secoli e quindi, non potendo nemmeno usufruire delle filiali di banche elvetiche ivi domiciliate, i depositanti avrebbero un forte disincentivo al sottrarsi al pagamento.

E qui torniamo all'ipotesi di nuovo scudo. Contestualmente al nuovo trattato si potrebbe varare un nuovo provvedimento di rimpatrio dei capitali non dichiarati, con una aliquota a sconto rispetto a quelle negoziate con il trattato. Un siffatto incentivo potrebbe, nonostante maggiori oneri rispetto a quelli passati, incentivare un rimpatrio di attività finanziarie e liquidità effettivo nel nostro paese.

Il beneficio per il sistema Italia è che detta liquidità, al contrario di quanto avvenuto nel passato, potrebbe essere destinata, alla luce degli andamenti erratici dei mercati finanziari, all'economia reale (dall'immobiliare all'industria, ma anche ai consumi), invece che all'acquisto di titoli.

Un mia personalissima previsione è che, tra trattato e nuovo scudo fiscale, si potrebbe ipotizzare un "incasso" per lo Stato, non inferiore ai 10 miliardi di euro.


Per la restante parte dell'evasione, c'e' ancora molto da fare. Ma questa è un'altra storia e merita un altro post.